mercoledì 17 marzo 2010
In esclusiva- "La Camorra è alimentata da chi ha interesse a ridistribuire denaro illecito" di Lello Magi*
http://politicachepassione.blogspot.com/2010/03/in-esclusiva-la-camorra-e-alimentata-da.html (blog di Mario Tudisco)
"La decisione definitiva della Cassazione, intervenuta su una parte del processo ‘Spartacus’, consente di mettere un punto su avvenimenti che hanno profondamente segnato lo sviluppo economico della regione Campania. La criminalità organizzata cresce e si alimenta non solo quando vi è disinteresse alla repressione dei comportamenti devianti ma –soprattutto- quando vi è interesse alla sua esistenza da parte dei tanti che ne sfruttano la enorme potenzialità di controllo del territorio, la capacità di mediazione sociale, la tendenza a redistribuire reddito derivante da accumulazioni illecite realizzate nelle pieghe dei bilanci pubblici. Purtroppo è stato così, ed ora possiamo dirlo con maggior convinzione, derivante non solo da rappresentazioni ideali o percezioni soggettive, ma dalla cruda realtà dei fatti. Forse è bene ricordare che i grandi conflitti criminali degli anni ’80 e ’90 (per certi versi mai sopiti) hanno sempre avuto riconoscibili matrici economiche sia di tipo interno ai gruppi (la storia della cruenta successione ad Antonio Bardellino nasce da questo) che di rilevanza ‘esterna’, nei rapporti con l’amministrazione pubblica e il ceto imprenditoriale. Chi controlla realmente il territorio diventa monopolista della sicurezza (essendo l’unico soggetto che può garantirla o decidere di alimentare l’insicurezza) azzera la concorrenza tra le imprese, impone scelte che di conveniente hanno solo l’appartenenza al gruppo del soggetto prescelto, fa lievitare a scapito della (parte di) collettività ‘estranea’ i costi delle opere pubbliche. Solo per fare qualche esempio, la colata di cemento gettata per rifare il canalone dei regi lagni (fine anni ’80 primi anni ’90) ci è costata circa 500 miliardi così come l’asse viario che collega Nola a Villa Literno a fronte di un progetto iniziale di 70 miliardi né costò ben 250 ed in entrambi i casi è stata constatata la profonda infiltrazione di imprese vicine all’organizzazione casalese. Gli esiti tecnici, peraltro, di simili opere appaiono poco soddisfacenti per qualità, in rapporto all’impegno di spesa.
Ed allora cosa può trarsi – come insegnamento – dagli esiti di un processo ? quali le possibili ricadute sul territorio e nella coscienza collettiva ? per rispondere bisogna risalire alle cause di ciò che è stato. I processi e le sentenze non possono- da soli- cambiare le cose, possono solo offrire al pensiero di tutti un bene sempre più raro e prezioso : la conoscenza. Conoscere non significa soltanto sapere se un soggetto scomparso è davvero morto, quanti colpi sono stati esplosi durante un conflitto a fuoco, quante persone hanno composto un gruppo, quanti giorni di appostamento sono stati necessari per arrivare alla eliminazione di un capoclan.., conoscere significa soprattutto cercare di capire perché quelle cose sono accadute, quale logica ha mosso le scelte, quanta parte di società apparentemente non criminale risulta coinvolta in quelle dinamiche di potere. Ed il problema attuale, al di là dei profili di ordine pubblico, è proprio questo. La conoscenza, infatti, crea una occasione collettiva, per certi versi, irripetibile. Se si riflette, infatti, sulle ragioni della accumulazione di un enorme potere economico in capo alla dirigenza (passata e presente) del gruppo casalese si comprende che ciò è correlato al governo di ‘settori strategici’ come il mercato delle materie prime nelle costruzioni, la distribuzione dei prodotti alimentari, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Settori di cui per troppo tempo la ‘parte buona’ della società civile si è del tutto disinteressata, facendo in modo che ‘altri’ si ponessero il problema della mediazione con il tessuto criminale. Per alcuni ciò è stato motivo di sofferenza (imprenditori o professionisti che non sono scesi a patti, spesso esclusi dal mercato) per altri è stata occasione di incremento di profitti, incarichi, commesse, consensi. Dunque, al di là dei profili di costume – pure importanti – il nodo resta di tipo economico e, per certi versi, politico ancor più che giudiziario. Potrà accadere, infatti, che qualcuno trovi il coraggio di denunziare la pressione sulle attività commerciali sentendosi più libero e più protetto dalle istituzioni ed in alcuni casi ciò è già avvenuto. Sono segnali incoraggianti, che autorizzano a credere in un – sia pur minimo – cambiamento di mentalità. Potrà accadere che qualche nuova leva delle organizzazioni criminali rifletta sulla ‘assenza di invincibilità’ dei gruppi e receda dal suo intento per mero calcolo utilitaristico. Ma tutto ciò – pure significativo – rischia di non creare le condizioni per una reale sconfitta del potere criminale perché altri continueranno a pagare e altri giovani troveranno collocazione operativa nei gruppi . Ciò che può realmente invertire i rapporti di forza , per ogni gruppo mafioso, è l’assenza di interlocutori, l’assenza di soci occulti, il rifiuto di ogni logica di mediazione nei grandi affari (e molti di questi sono alle porte nell’intera regione) . Solo l’isolamento può determinare la scomparsa di chi, per troppo tempo, ha sfruttato ogni emergenza per imporre soluzioni che incrementavano i guadagni di pochi".
*Raffaello Magi(Presidente prima sezione penale Tribunale di Santa Maria Capua Vetere- giudice estensore della sentenza Spartacus)
L'Arch. Alfredo Di Patria sull'ultimo scritto del Giudice Magi sulla sentenza Spartacus ha redatto una sua riflessione che alleghiamo integralmente.
SPARTACUS: LA CASSAZIONE CONFERMA
Non dovrebbe ormai esservi più alcuno tanto sprovveduto o tanto intellettualmente disonesto da negare la amara verità di fondo chiaramente esplicitata dal giudice Raffaello Maggi nella sua ultima intervista rilasciata al giornalista Mario Tudisco: la criminalità organizzata non è un entità patologica a sé stante, sviluppatasi mediante misteriosi meccanismi geneticamente autonomi in opposizione alle condizioni ambientali di un contesto sano e reattivo, bensì essa affonda profondamente le sue radici in quella parte malata di società civile affaristico-professionale, parassitaria, approfittatrice e priva di scrupoli, che si è costruita la propria rappresentanza a livello istituzionale in settori della classe politico-burocratica disponibili a svolgere la infame mediazione tra “economia legale” ed “economia illegale”.
Il blocco di potere sostanzialmente colluso con il “malaffare” ha consentito ad una criminalità endemica, cronicamente ammorbante questo nostro disgraziato meridione dove non è mai finito il feudalesimo medioevale, la possibilità di fare il salto di qualità nell’assurgere al ruolo di “camorra imprenditrice” .
Il passaggio più significativo dell’intera intervista è quello contenuto nel passo finale, con il quale Maggi conclude affermando che la vera arma efficace contro la camorra sta nella recisione delle sue radici e nell’isolamento al quale dovrebbero condannarla la migliore società civile, la imprenditoria sana ed una rinnovata politica, tenendola fuori dalla realizzazione dei “grandi progetti di sviluppo” che stanno per essere messi in campo alla scala regionale.
Probabilmente dipende dalla particolare ottica acquisita nello svolgimento della mia attività professionale se, con riferimento al suddetto appello, avverto la esigenza di completare il quadro dell’analisi tracciato da Maggi aggiungendo una riflessione proprio sullo stretto rapporto intercorrente tra “modello di sviluppo economico-territoriale” e patologia criminale in Terra di Lavoro.
Potrebbe sembrare infatti all’osservatore più superficiale che i “ grandi progetti” (cioè i grandi affari che si profilano alla scala regionale, ai quali Maggi fa preoccupato cenno) siano da considerarsi in sé, in termini neutrali rispetto alle dinamiche di sviluppo della patologia criminale: gli sprovveduti ne farebbero oggetto di astratte valutazioni di convenienza tecnico-economica e di “sostenibilità ambientale”.
Una certa parte degli “addetti ai lavori” in effetti, anche tra i politici senza dubbio più impegnati nella strenua lotta per l’affermazione della “Legalità”, ritiene che, liberati dagli appalti truccati, da forme di corruzione della pubblica amministrazione, da violenza e prevaricazione nel campo della concorrenza tra imprese, insomma dalla ingerenza della camorra, e restituiti al loro “legale” iter di progettazione/approvazione/attuazione, questi interventi di trasformazione del territorio possano (addirittura debbano) costituire i capisaldi del tanto atteso rilancio dello sviluppo socio economico di questa Regione e di questa Provincia.
Ritengo allora opportuno proporre in estrema sintesi una mia lettura critica del “modello di sviluppo” adottato all’epoca per l’industrializzazione del Casertano, onde sollecitare la riacquisizione della consapevolezza storica di come questo modello disastrosamente fallimentare abbia contribuito al degrado sociale-economico-ambientale ed abbia prodotto i guasti che alla fine tutti noi abbiamo sotto gli occhi, compreso l’imperare della camorra nelle nostre zone.
Ritengo infatti che oggi siamo al suo epilogo, che una classe dirigente politico-imprenditoriale assolutamente screditata vuole presentarci come l’alba di un nuovo giorno, mettendo in campo previsioni di iniziative funzionali ad una “normalizzazione” che vedrebbe ancora una volta perdenti una comunità ed un territorio.
Intanto tutti dovrebbero rammentarsi che l’industrializzazione del Casertano avviata negli anni ‘60/’70 non è stata prodotta dal risveglio e dall’impegno finanziario ed organizzativo di una imprenditoria locale, ma è stata puramente e semplicemente la colonizzazione del nostro territorio attuata da grandi aziende forestiere, nazionali ed estere, che sono venute a sfruttare un bacino di manodopera, gestendo un ciclo sostanzialmente chiuso di lay-out tecnologico, progetti, portafoglio-clienti, installazione di impianti industriali sofisticati, dal quale siamo stati esclusi: ciò che ha impedito il formarsi di un indotto locale tecnologicamente evoluto capace a sua volta di svilupparsi per suo conto.
Terra di Lavoro così, mentre perdeva un’opportunità storica di valorizzare le proprie vocazioni e tradizioni nel campo dell’agricoltura evoluta, dell’artigianato di qualità, e della ricerca scientifica, seguendo un diverso modello di sviluppo che certamente le sarebbe stato più appropriato, non vedeva porre neanche le basi per un serio sviluppo industriale: qui in quarant’anni non si è formata una vera classe imprenditoriale locale, e neanche una vera classe operaia politicamente e culturalmente consapevole.
La strategia di insediamento però prevedeva una ben precisa articolazione dei ruoli: in campo manifatturiero-industriale la direzione delle operazioni restava saldamente in mano ai grandi imprenditori forestieri; ai locali viceversa veniva lasciato l’enorme settore delle “costruzioni edilizie e delle infrastrutture minori, la partecipazione ai subappalti delle opere infrastrutturali maggiori, la fornitura di materiali ricavati dal saccheggio del territorio, cioè tutti i settori di intervento più rozzi delle attività industriali e dei servizi.
Dalla metà degli anni sessanta il motore industriale, e la politica di sostegno pubblico, mettendo in gioco capitali di intervento in opere pubbliche e reddito diffuso da salario, innescava sconvolgenti trasformazioni.
Sono seguiti quindi gli anni della crescita incontrollata dei centri abitati, della speculazione edilizia, della devastazione dei beni ambientali, ai cui profitti ha partecipato tutta la locale rendita terriera parassitaria e tutto il nostro professionismo tecnico più becero.
Ma sono stati pure gli anni nei quali la camorra ha conquistato posizioni dominanti prima nella esecuzione delle opere, facendo fuori spietatamente la concorrenza, e poi addirittura nel condizionamento determinante delle amministrazioni locali nelle scelte di pianificazione operate in fase di formazione degli strumenti urbanistici.
E così, com’era prevedibile, nel settore delle trasformazioni urbanistiche del territorio essa ha trovato il principale sbocco dei capitali che frattanto rastrellava con estorsioni, racket della prostituzione, spaccio di droga….
Una borghesia ignorante ed inconsapevole ha partecipato alla rapina del territorio ed alla dilapidazione di risorse naturalistiche facendosi cliente dei costruttori di “case per le vacanze” che hanno devastato il Litorale Domizio e le colline Tifatine.
Un forte consenso elettorale di base a più riprese ha sostenuto l’ascesa dei politici che hanno fatto le loro fortune gestendo o mediando queste devastanti trasformazioni.
Lo strapotere della camorra ha reso via via sempre più soffocante l’ambiente per la stessa grande impresa, assoggettata a ricatti di ogni tipo e pesanti interferenze finanche nelle assunzioni: anche questo è stato un motivo per il quale la “convenienza localizzativa” iniziale è via via venuta meno, spingendo, unitamente alle grandi trasformazioni degli scenari economici globali, alla progressiva dismissione dell’apparato produttivo.
Man mano che viene meno la grande impresa forestiera, in assenza di una vera imprenditoria industriale locale, a noi resta solo quell’altra parte dell’apparato produttivo: i servizi e l’edilizia, cioè quanto è quasi per intero controllato direttamente o indirettamente dalla criminalità organizzata.
Si aggrava di conseguenza la crisi economica che si aggiunge al degrado morale sociale ed ambientale.
Ad un certo punto allora la classe dirigente politica regionale e provinciale viene a trovarsi assediata da un lato da una “imprenditoria” locale che, a prescindere dalla sua collusione o dalla sua sudditanza alla camorra, non sa fare quasi altro che operare nel settore del mattone ed allestire “cantieri temporanei e mobili”, affiancata da una pletora di detentori di risparmio privato in cerca soltanto di occasioni di investimento speculativo, e dall’altra dal montare della protesta popolare alimentata da una disoccupazione dilagante e dal crollo dei livelli di reddito.
E tenta la quadratura del cerchio con il promuovere insediamenti di Centri Commerciali (che fanno saltare del tutto gli equilibri tra offerta di beni e capacità di spesa), Poli della Qualità (fallimentari), Piani di Insediamenti Produttivi (senza prospettive) Piani-Casa (demagogici ed irresponsabili) e quant’altro dovrebbe “rilanciare l’economia creando occupazione”, ma in effetti distrugge soltanto ulteriori risorse territoriali/ambientali, e favorisce l’impiego di capitali in investimenti senza utilità sociale e sostenibilità ambientale.
Con i Grand-project dei campi Territoriali Complessi del Piano Territoriale Regionale fa ancora di più: mette un altro tassello alla realizzazione di quell’area Metropolitana Napoletana (che sembra fermamente voluta dai politici di tutti gli schieramenti), nel cui ambito le comunità del Casertano perderebbero definitivamente la loro identità e la loro autonomia nella gestione delle risorse territoriali e nella disciplina delle trasformazioni urbanistiche, vedendo compromessa per loro ogni altra prospettiva di futuro alternativo.
In questo quadro programmatico, che fine faranno i nostri giovani laureati in cerca di occupazione nei settori della ricerca avanzata, che possibilità avremo di produrre merci di qualità da scambiare sui mercati della globalizzazione, come potremo preservare le aree dell’agricoltura che ci restano, o assicurare gli equilibri tra popolazioni insediate e risorse del territorio?
L’allarme che io mi sento di lanciare allora è questo: stiamo attenti che intorno alle grandi previsioni del Piano Territoriale Regionale si stanno già formando cordate di imprese, ovviamente “certificate anti mafia”.
A loro questo modello di sviluppo sta proprio bene.
Se non cambierà il “modello di sviluppo” per i nostri territori, avremo soltanto la tragica beffa che “cambi tutto per non cambiare nulla”: forse non sarà più (o non si chiamerà più) camorra, ma per noi sarà la stessa cosa, anzi peggio e definitivamente.
Alfredo Di Patria